POESIA: tu lo sai perché si scrive? E’ la mano che interrompe la riga, un impulso ancestrale e va daccapo? Anche la mano avverte che il tempo stringe e che non è più il caso di farla lunga.
Dicono che si scrive per guarire. Da che dolore? Non c’è più dolore, solo incertezze, e non si sa a chi chiedere.
[invitiamo a proseguire la lettura dei testi inediti di Anna Maria Carpi su Le Parole e Le Cose]
A letto. “St…stiamo a…ancora un…po’ qui?”, mormora lui con la faccia nel cuscino. “Che ora è?” fa lei, “Aspetta, accendo…Oddio, già le nove!”. Al di là degli scuri accostati è già chiaro, è vita, è giorno, si sente il traffico.
Via le coperte, giù dal letto, lui di là, lei di qua, e il letto resta grandiosamente spalancato. Lui, in mutande e canottiera perché detesta i pigiami, va in cucina a bere il primo bicchier d’acqua – oggi dicono che bisogna bere, bere, acqua s’intende – e lei va in vestaglia a vedere se c’è qualcosa per lei sull’email. No, niente. “Cafferino?” chiede lui dalla cucina. Lei non risponde. Ovvio, come sempre. “Perché non ri…sp…ondi?” Ovvio, come sempre, cafferino e crostino con la marmellata.
Poi lui si veste e le chiede di verificare se ha messo dritto il cappuccio della felpa che gli ricade sulle spalle. Dopo un’altra sosta in bagno uscirà a prendere i giornali – gli fa solo bene, no? E lei? Aspetta che lui torni coi giornali. Adesso lui prende Repubblica e Domani, e Repubblica del venerdì ha perlomeno il supplemento, ma dov’è la differenza coi miserabili telegiornali? Menomale che la domenica c’è anche Il Sole. [La lettura del racconto continua su Le parole e Le cose]
ANNI CON NOI e noi li abbiamo amati –
non dirlo forte – più che congiunti e amici.
Tutto comincia con un libertino,
un cane, era Cirino,
c’era la guerra, noi stavamo in campagna,
lui la sera scappava e ritornava all’alba
infangato ferito a coda bassa:
un tempo eroico e non solo per lui.
Poi eravamo
nella casa di sempre.
Le date vanno insieme.
Allora c’era Muli,
un maschio bianco e grigio,
la sua impresa: sulla scrivania
pisciare sulle carte di mio padre.
Aveva un avversario giù in cortile,
tale Miro, un malvagio:
ne fu sconfitto e non tornò mai più.
Dopo di lui la panterina nera,
la mite Dede piena di mali
e l’ora di dolore senza eguali
di quando la si dovette far morire.
Lacrimando
io me la tenni in grembo fino all’ultimo.
Era freddo e stavano chiudendo,
e di aver lasciato
quella piccola salma là nel buio
non posso perdonarmi finché vivo.
Poi arrivò Luigi,
era nell’81, ce lo passò un’amica.
Al possente soriano
facemmo far dei figli.
Ben tre maschi tigrati
e una tutta grigia e una biondina.
Da sopra il cesto il padre che li guarda
in gran stupore: e chi sono questi?
Fjodor, Strill, Piombino, Felicino
e la Baffina.
A me restò Baffina.
Ora ho imparato a seppellire i morti:
sul prato, sotto l’albero di Giuda
dai fiori rossi, curvo sulla terra.
Là sotto lei riposa.
Un’altra amica ci passò poi Cino
il pacifico il dolce il senza pari:
da quattro anni dorme accanto a lei.
Ma gli avevamo preso una compagna,
l’avevo raccolta io in un giardino:
aspettando il suo cibo la piccina
sulla soglia, in cucina, faceva un buffo mucchio
di bianco nero e ocra –
solo le femmine sono tricolori –
e la chiamammo Mucchi,
e lei c’è ancora e ci sarà per sempre.