L’ultima sosta (uscito su Le parole e le cose)

A letto. “St…stiamo a…ancora un…po’ qui?”, mormora lui con la faccia nel cuscino. “Che ora è?” fa lei, “Aspetta, accendo…Oddio, già le nove!”. Al di là degli scuri accostati è già chiaro, è vita, è giorno, si sente il traffico.

Via le coperte, giù dal letto, lui di là, lei di qua, e il letto resta grandiosamente spalancato. Lui, in mutande e canottiera perché detesta i pigiami, va in cucina a bere il primo bicchier d’acqua – oggi dicono che bisogna bere, bere, acqua s’intende – e lei va in vestaglia a vedere se c’è qualcosa per lei sull’email. No, niente. “Cafferino?” chiede lui dalla cucina. Lei non risponde. Ovvio, come sempre. “Perché non ri…sp…ondi?” Ovvio, come sempre, cafferino e crostino con la marmellata.

Poi lui si veste e le chiede di verificare se ha messo dritto il cappuccio della felpa che gli ricade sulle spalle. Dopo un’altra sosta in bagno uscirà a prendere i giornali – gli fa solo bene, no? E lei? Aspetta che lui torni coi giornali. Adesso lui prende Repubblica e Domani, e Repubblica del venerdì ha perlomeno il supplemento, ma dov’è la differenza coi miserabili telegiornali? Menomale che la domenica c’è anche Il Sole. [La lettura del racconto continua su Le parole e Le cose]

Un amore. La farfalla (racconto uscito su Le parole e le cose)

[Immagine: © Katharina Jung, Heaven II (particolare)].
[Immagine: © Katharina Jung, Heaven II (particolare)].
 

Era fresco di laurea, per il momento insegnava a ragioneria, a Milano, in piazza della Vetra e una cupa mattina di ottobre, entrando in sala professori e andando allo scaffale a prendere il registro, se l’era trovata accanto, che trafficava nel proprio scomparto. In genere le prime ore si assegnavano agli ultimi arrivati e ai precari, ma a lui andavano benissimo perché rincasando nella tarda mattinata aveva ancora del tempo per le proprie cose e per dedicarsi a qualche lettura.
Sono Caterina Decleva, e verso di lui si era protesa una piccola morsa bianca, mentre in questo nome, come una limpida, unica nota di flauto, prima che lui riuscisse a mettere a fuoco l’immagine, era echeggiata non so quale strana promessa di gioia.
Era anche lei sui venticinque. Riga nel mezzo, una massa di riccioli brunorossastri che le arrivavano alle spalle e le davano qualcosa di casto, e caste e verginali erano anche le sue membra lunghe, il poco seno, la giacca maschile, i tacchi bassi. La faccia era lievemente dissimmetrica, come in certi neonati che dormono ostinatamente sempre sulla stessa guancia. Ma l’insieme della figura aveva una decisa pretesa di bellezza.
Che ne diresti, disse lei guardandolo dritto in faccia: nell’intervallo ci prendiamo insieme un caffé?
Ma con piacere, aveva risposto lui, e durante la prima mattinata la parte davanti del suo cervello si era applicata alla liturgia dell’insegnare, ma nella parte di dietro c’era come scritto a grandi lettere: che fior di ragazza.

Caterina era venuta al bar con un pacco di compiti stretto al petto: hai visto? fece alludendo al pacco, quanto mi ci vorrà? Ma ci sono dei criteri precisi per la correzione? E le domande tu come le scegli? Poi, al banco del bar, cambiò argomento: le vacanze di Natale, tu dove pensi di passarle? Io, disse con rabbia, sono costretta ad andare in Venezuela con mio padre. [continua a  leggere su Le parole e le cose]